Storie

Porta Palazzo sa, in ogni stagione, rallegrare uno spirito che è ben disposto a farlo. E, così, le peonie di maggio, le rose in giugno e le ortensie che coraggiose sfidano luglio diventano piacere per l’anima e ricchezza per la mente. 

Ogni volta che arriva il caldo, e che sia per un giorno soltanto quando la stagione non è ancora quella giusta, o per un periodo lungo quando il mese si fa tempo, mi incupisco. Ed i movimenti si fanno lenti, si aprono al sole che s’alza, si dilatano per farsi riposo. La mente prende una piccola borsa riempita di fretta ed inizia a viaggiare verso quei tempi più freschi, quando anche solo rendersi capace di un pensiero è affare più semplice. Ma poi arriva il caffè, salvifico. E con il suo momento perfetto ci dice, semplicemente, che in realtà la normalità, è sempre lì.

La stagione dell’acacia è brevissima, come un soffio. Ti svegli una mattina e ti chiedi quando arriverà, l’acacia, e non fai in tempo a darti una risposta che la vedi proprio lì in una cassetta tra i banchi di Porta Palazzo; se non ti decidi in fretta, e non sei veloce ad infilarla nella cesta di paglia, l’acacia svanisce. Non importa se quel giorno fossi di fretta, o stessi ragionando con quale ricetta usarla al meglio: se non cogli l’occasione, lei scappa. Alloa evviva l’acacia e la sua fretta di esserci che la rende speciale e magica come un incantesimo veloce.

Che fosse la festa della mamma io, oggi, non l’ho quasi pensato. Sarà perché non mi sono mai sentita tua mamma e al tempo stesso l’ho sentito ogni istante, ad una profondità tale del mio essere che non pensavo potesse esistere. Non ho mai pensato a come poter fare la madre, e mi sono scoperta esserlo; non mi sono mai fatta domande, e ho trovato tantissime risposte. Allora ti prometto che forse una mamma davvero non mi sentirò mai, ma che saprò sempre che io e te siamo una cosa sola. E che mi impegnerò per farti godere di una peonia nel mese del tuo compleanno, e insegnarti che tutto, nella vita, può essere felicità, soprattutto ciò che felicità non ti sembra e che piccolo piccolo quasi ti parrà di non vedere. Perché che io mi senta una mamma, o no, prenderò sempre la tua manina e sarà lì che ci troveremo, sempre, in un petalo di peonia nel mese del tuo compleanno

Credo fortemente che, in fondo, ciascuno di noi riesca ad attrarre a sé tutto ciò che sente più famigliare. E allora ecco che le amicizie si fanno profonde, ed i tramonti raggiungibili con un salto; ecco che le ricette si fanno semplici, ed in quella facilità si riesce anche scorgere la felicità. E capita, poi, che quando tutto prende il proprio posto, anche il resto si apparecchia a festa, a far da cornice. E allora sì, che ogni minuzia, anche quella più piccola e che quasi non si vede, si trova ad essere esattamene dove deve.

Ci sono posti in cui ci si sente a casa. E non importa se ci si vada spesso o non ci si passi mai. Non fa nulla se ci trascorra molto tempo, o se le permanenze siano veloci e leggere; e qualunque sia la porzione di vita che qui si passa, questa riesce ad amplificare il proprio valore fino a far sì che se ne riesca a sentire l’eco.

Ogni anno, non aspetto altro che questo momento, quello in cui le peonie sbocciano ed il loro profumo unico riempie ogni angolo. È un profumo che non saprei descrivere, e che forse neppure vorrei provare a farlo: un lieve sentire di erba e felicità, quel non so che che chi ama le peonie sa bene di cosa parlo.

E alla fine loro, ogni anno, sbocciano e quell’essenza la regalano sempre, senza risparmiarsi mai. Allora iniziano una mattina aprendosi un poco e, nel loro dischiudersi, mostrano tutta la bellezza di un maggio che esplode.

I caffè non sono mai abbastanza. Così come non lo sono i baci, i fiori, le mattine di sole. I libri da leggere, le cose da scrivere. Le prime uscite senza calze, le caviglie ancora chiare come se uscendo più svestiti ci si scrollasse di dosso anche l’inverno; la pelle d’oca all’ombra, il tramonto un poco dopo. Le peonie. E allora i caffè davvero non saranno mai abbastanza ma credo anche non abbiano alcuna intenzione di finire, e così le cento, mille cose belle di ogni giorno in ogni mese ad ogni anno.

Ho sempre pensato che, in qualche modo, la primavera sia prepotente. Che sia coraggiosa e che arrivi, dopo un più o meno lungo freddo, e si arroghi il diritto di portare fiori, colori, nuove sensazioni; che entrati in marzo sussurri che niente sia più come prima ed una volta in aprile lo urli a gran voce. Quindi sì per me la primavera è un po’ prepotente ma come si può non amarla se poi ti giri e trovi cento rami di lillà a guardarti e sedurti?

A volte mi annoio da sola per quanto le cose che mi piacciano siano poi sempre in fondo le stesse. La brioche al mattino, il caffè macchiato, un libro ma non all’inizio, poco più in là quando la storia ha preso piede abbastanza da rendere indispensabile andare avanti con la lettura; i fiori, tutti, le persone, alcune. Scrivere. Le ceramiche spaiate, l’inverno che sfocia in primavera, la primavera ma quella per la quale è ancora necessaria una sciarpa bella pesante. Un pavimento antico, le sue cementine, le cipolle e la spesa al mercato in ogni stagione. Quindi a volte mi annoio, ma con dei bisogni dell’anima così chi non sarebbe felice anche se un po’ annoiato?

Se vedo un pavimento così, io entro. E non mi interessa se sia un negozio o una casa, perché alla fine poi si scoprono storie proprio lì dove non si sarebbe immaginato. Ricordo per esempio di una volta in cui mi sono infilata in un androne ligure, ed una vecchina mi aveva guardato male; ma sciolta la diffidenza mi aveva raccontato la vita di quelle piastrelle, ed ancora oggi la foto di quel pomeriggio assolato è tra le mie preferite. Un’altra avevo programmato di entrare in un giornalaio di paese proprio in quel giorno in cui mi ero messa delle friulane abbinate; ma me ne ero dimenticata, ed ero riuscita ad andarci quando le scarpe da ginnastica avevano deciso di portarmici tra una faccenda e l’altra. Perché la vita e le storie sono così, come un pavimento antico: arrivano quando vogliono e non gli importa di come sel vestito.

38 settimane dentro, 38 settimane fuori.

Sei nata un poco prima, l’impazienza l’hai presa da me, la gentilezza da tuo papà; duecentosessantasei giorni, circa, che non finivano mal, e che sono volati, poi. Crescita veloce, cambiamento spedito, un mondo da scoprire, un amore che si fa immenso.

Non posso dire che ti ho amato alla follia da subito, che con te sia nato anche il mio sentirmi madre: ho dovuto passare i tuoi primi momenti a far pace con l’umiliazione, il dolore, con l’incapacità. I pianti. Ho dovuto reinventare la mia esistenza per crearne una nuova versione che includesse te. Ma tu e la tua gentilezza vi siete fatte salvagente, insegnandomi come essere mamma. E non mi vergogno di dirtelo, che non ho provato ciò che tutte le donne dicono di provare quando il proprio figlio nasce. Non mi vergogno di dirti che prima ho dovuto sistemare me, per potermi occupare di te; che ho avuto bisogno di dormire, di trovare appigli per nuovi respiri. Non mi vergogno se non sono stata perfetta, come ci si aspetta, se non lo sono neppure ora.

Ma una cosa questi duecentosessantasei giorni ce l’hanno insegnata.

Che siamo una grande squadra, io e te. Che ci siamo prese il nostro tempo per conoscerci, farci essenziali. Per cercarci con lo sguardo, trovarci col sorriso. E cosa importa se questo momento di ricerca è durato un istante, un’ora, un anno intero?

Ora io sono tu, e tu sei me. E cosa conta allora tutto ciò che è successo prima, se io sono tu, e tu sei me? 

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Come ho già detto, a Porta Palazzo in questi giorni marca male. Ed è una tristezza, perché se da una parte è vero che chi va li per far soltanto la spesa ne rimane contento comunque, lo è altrettanto che chi va col secondo fine di nutrire gli occhi, rimane un po’ deluso e deve un po’ accontentarsi di carote spennacchiate. Meno male che le cipolle sono una garanzia. Eppure voglio così bene a Porta Palazzo, che io ci vado lo stesso ogni settimana, anche se non è bello come in primavera o ricco come in estate, e ci vado per comprare un manigotto o poco più; lo faccio per non perdere occasione di consolarlo, Porta Palazzo, e dirgli che torneranno i fiorellini sui suoi banchi e che anche quest’anno la borragine tornerà a fiorire.

 

 

C’è questa cosa qui vicino a casa, ossia che il Giovedì viene un furgone da Sanremo e all’angolo della piazza, davanti alla farmacia e poco più in là della panetteria, scarica i suoi secchi pieni di fiori. Lo fa senza delicatezza, senza piacere alcuno, di sicuro senza poesia. E riconosci subito chi lo sa, che al giovedì viene Sanremo, perché poco prima di arrivare inizia ad essere contento, e non importa se lui è burbero, perché in fondo di come è lui non importa davvero. E chi non lo sa, di Sanremo, lo riconosci ugualmente perché contento lo diventa una volta che arriva lì a scegliere il suo mazzo di fiori distrattamente felici e rozzamente meravigliosi.

Caro Gennaio non mi stai piacendo molto.

Forse perché ti credevo corto e ti stai rivelando interminabile, forse perché le tue giornate si allungano proprio ora che ho così tanta voglia di inverno e forse perché ho iniziato un libro che proprio non mi piace ed odio quando succede perché un po’ mi sento in colpa ad abbandonarlo, un po’ non voglio leggere cose che non mi piacciono perché in fondo deve essere un piacere e se non mi piace che piacere è.

Forse perché i banchi a Porta Palazzo sono pochi. Insomma, perché non stiamo andando d’accordo non lo so, ma abbiamo ancora undici giorni esatti per darci una seconda possibilità, iniziare nuovi libri e diventare grandi amanti, io e te.

E così ho iniziato questo libro che all’inizio non mi piaceva, ma andando avanti mi ha conquistata ed in un attimo sono tornata indietro nel tempo, a leggere sotto le coperte con la torcia del cellulare acceso, a vedere le ore della notte passare ma a spegnere anche se ancora non si ha sonno perché resti qualche pagina, domani. A vivere le vite dei personaggi, immaginarli nella mente e credersi loro amica, persino. E a pensare che mi piacerebbe scrivere, un giorno, una storia così accattivante da tenere incollati occhi curiosi ed innamorati. O a viverla, perché no.

Giorni lenti di passeggiate tra la neve, poca, e caffè macchiati, tanti. Di male ai polpacci perché non ho il fisico, di banchi al mercato che si colorano d’inverno. Di libri letti e parole scritte, di primi dentini, e tramonti su montagne che sembran rosate. Di risate. Di tempo che si dilata a far sembrare le giornate più lunghe. Di giornate davvero più lunghe, chissà. Di diete iniziate anche senza il proposito di farle, di propositi non mantenuti di non farne nessuno. Di aspettative che immaginano la realtà è di realtà che le superano. Giorni così.

Come sempre, quando inizio a scrivere ho la tendenza a non fermarmi più, e se in principio ho difficoltà a trovare le parole giuste, arriva il momento in cui non mi importa più se ci sono ripetizioni o se la punteggiatura non è perfetta ma lo diventa il tirare fuori tutto ciò che mi immagino nella mente come un film. Perché spesso vivo così, pensando di essere il personaggio di una pellicola e che ogni mio pensiero o azione venga registrata per esser poi vista da chissà quante persone. Allora mi riscopro ad essere più delicata, a cercare di nascondere la goffaggine e mascherare la mia decisione da finta nonchalance verso emozioni ben celate. Ed in una colazione mi vedo riflettere, su cosa chissà, con una musichetta in sottofondo a rendere tutti un po’ più spensierati.

Mi ero ripromessa di non parlar di lucine, aria fredda, guance che arrossano e sciarpe che si annodano intorno al collo con un che di consolatorio. Avevo promesso di non scrivere delle giornate corte, della necessità di un caffè caldo quando i piedi nudi toccano il parquet, o del gesto simpatico di sfregarsi le mani come per scaldarle, movimento che in qualunque lingua, chiunque si abbia davanti, trasmette meglio di tutto il resto l’idea del freddo che fa. Ero decisa a non parlare dell’esigenza di leggere un libro nuovo o di scrivere per fermare un momento che vorremmo durasse per sempre, magari per rivivere un istante, chissà. Avevo dato la mia parola che non ci sarei ricascata, in questi cliché d’inverno, ma in fondo cos’altro c’è di più bello della carne che ammorbidendosi cede a preziose e necessarie tentazioni?

Questa mattina, distratta dalle mille incombenze della vita che avanza, mi sono messa a tagliare i giacinti dai bulbi, a dividere il fiore da quella che fino ad un istante prima era stata casa rifugio, nutrimento vita. Cosi, mentre canticchiavo convinta le canzoni di Natale, che a metà dicembre non si può far altrimenti, sicura nel mio fare stonato, nel colpo di forbice mi sono inebriata del loro profumo, come se con quello mi stessero ringraziando del liberarli dall’essere storti, appesantiti dal peso del loro fiore meraviglia. Ed in cambio di questa piccolezza soprappensiero, mi han fatto il regalo di una cucina profumata e felice.

La cosa più incredibile del Natale, credo, è la velocità con cui passa. Infatti, se i mesi che lo precedono si allungano e ci si può perdere in un pomeriggio ora nebbioso, ora piovoso, Dicembre non ammette eccezioni e vola via tanto veloce che si è costretti a godersi ogni minuto, e riempire ogni giornata di lucine, melodie, caffè speciali addobbati per le feste. E, diciamocelo, il bello è proprio questa sua velocità, come una canzone che va in crescendo in pomposità, e che da la carica tutti i giorni, ogni giorno un po’ di più.

 

 

 

Passeggiando per il mercato, la natura si risveglia, e noncurante di tutto fiorisce.

Piccoli e velati consigli quotidiani.

 

 

 

Bilancio di questa metà settimana: insieme costante di minuscole felicità e sporadici gesti di gentilezza da parte di persone, natura, vita.

 

Farsi turisti nella propria città a volte è bellissimo; si può far finta di non conoscere le vie e perdersi e meravigliarsi increduli di
quel baretto che si incontra e chiedersi se faranno un buon caffè: massì, è pieno di gente ed il caffè sarà buono per forza.
Il caffè poi era buono per davvero, e la giornata è potuta continuare tra un finto smarrimento ed un altro, morbidi pretesti per camminare col naso all’insù.

 

 

Quando sento questo profumo, che solo le peonie del giardino di mia mamma hanno, mi manca il fiato per un po’. È lieve, e nulla ha a che vedere con alcun altro odore nel mondo: un sentore che si palesa una sola volta l’anno, per pochi giorni, e per questo ancor più speciale. Così oggi passerà così, tra un’annusatina ed un sospiro d’amore.

Dopo dei giorni di gran caldo, le nuvole han fatto capolino, promettendo pioggia, tuoni, magari qualche fulmine; per ora è scesa
solo qualche gocciolina, ma abbastanza da far ritirare fuori le giacche e qualche bel golf pesante.
Piccola tristezza per chi pensava che l’estate fosse qui, ma grande contentezza per le prime peonie che hanno aperto l’ombrellino e
avide han bevuto, diventando enormi e profumate.

Caro Autunno, ieri sera ti osservavo attraverso le gocce di pioggia che si rincorrevano sul vetro; ho visto nelle tue pepite d’acqua i colori che stan già andando smorzandosi, l’uva, le zucche, le dalie che non si trovano più.

Ho visto i primi maglioni, che poi quando abbiamo indossato il primo? E ho pensato che tempo qualche giorno e sarà ora di indossare anche un sciarpa.

Ho visto i primi film di Natale, ma davvero potevo voltar stagione senza aver pensato a te, come si deve, almeno una volta?

Erano giorni interi, quasi mesi ormai, che non scrivevo niente.

Non una frase, un pensiero, un’annotazione veloce a punta di dita.

Forse gli eventi mi han sopraffatta, le novità mi han lasciata senza respiro, proprio io che ogni sera accendo la stessa candela e già in pigiama aspetto che la sera passi a notte; forse ci son stati momenti più grandi di me, e allora quando è così io a scrivere non ci riesco.

Forse perché basta la realtà, a sentirsi altrove.

Ma il bello, sempre, è che quando ricomincio, non mi fermo.

E allora lì basta sedersi e le parole vengon da sé.

Ho avuto così tanto caldo che ho pensato, come sempre, Estate non ti sopporto.
Ma poi ho trovato delle cicale così insistenti nel loro frinire che alla fine, dopo averle ascoltate un po’, mi sembrava mi dicessero di piantarla di lamentarmi.
Ora, non so se le cicale possano davvero parlare, fatto sta che grazie a loro ho smesso di aver caldo e di colpo il sole è diventato motivo per vedere il cielo ancora più blu.

C’è questo tavolo vecchissimo, nella cucina della casa al mare; ha gli angoli sbeccati, le gambe la cui vernice spesso si stacca, per finire inesorabile sul pavimento.
Ha delle macchie, sembra persino un po’ storto.
Eppure, qualsiasi cosa ci si appoggi sopra, sembra illuminarsi, prender nuova vita, portavoce di una nuova storia.
E così, un’albicocca diventa meraviglia, ed un semplice caffè tutto ciò che ci si aspettava dalla vita.
Che bella cosa, le cose vecchie.

Sono giorni di fuoco.

Giorni così caldi che ci si chiede se se ne sono già vissuti di così, nella vita: mattine in cui il sole non è clemente e notti per cui la luna non ha abbastanza forze.

Ore in cui il vento è un regalo.

Ma se si riesce a fermarsi un secondo, e pensare che esistono il mare, e le stelle cadenti, conviene sedersi e guardare che passi, ché a Settembre, poi, il lento incedere, il profumo di fico al meriggio, saranno sorriso.

Caro Agosto, non ti ho mai amato.
Sei stato il mese prima dell’inizio della scuola, degli esami, del ricominciare qualcosa che con la prima Estate si era messo in pausa; sei stato gli addii agli amori al sapor di sale.
Ti sei fatto sale, fatto mare.
Lieve speranza, hai portato buoni propositi, porto di novità.
Non ti ho mai amato, ma se dovessi provare a farlo, inizierei dedicandoti colori che scaldano le palpebre e fan tremare le mani; poi si vedrà.

Io, anche quando sono in vacanza, non sono mai in vacanza.
La mia mente va, e gira, ritorna e riparte, pensando sempre a ciò che sarà dopo.
Così, se sono in spiaggia a prendere il sole, penso al libro che mi aspetta a casa, e se poco dopo sono a leggere penso a cosa dovrò fare a Settembre.
La cosa bella è che poi a Settembre mi stupisco che l’estate sia già finita, e di quanto sia stata bella.
Allora mi consolo e lascio la mia mente libera ancora un po’ di perdersi in sconclusionati e leggeri pensieri.

Di sera, spesso, mi viene la malinconia.
Mi capita di guardare fuori dalla finestra e rattristarmi, o sedermi sul letto, a giorno finito, e sospirare.
Ho pensato che sia perché carico ogni istante di così tanta gioia che poi, quando passa, per forza lascia un piccolo vuoto.
E per questo al mattino faccio cosi: metto un vestito a fiori e vado a comprarli, i fiori.
Metodi infallibili per il ritorno alla felicità.

Ho sempre avuto una scrittura in qualche modo romantica; fin da piccola, quando scrivevo per comprendere, prendevo immagini che mi erano vicine, e riempivo pagine su pagine di a volte stucchevoli pensieri.
Col crescere, ho cercato di asciugarne la visione, limando le parti più dolcigne; ho provato ad essere ferma, eliminando il personale perché le mie parole potessero arrivare senza noiose appendici private.
Oggi, che entrambi i tentativi sono falliti, scrivo perché farlo fa parte di me; oggi ridondante, domani sintetico: e cosa c’è di meglio che una penna volubile e civettuolamente capricciosa?

A volte mi chiedo cosa avrei fatto se non mi fosse piaciuto il caffè.
Cosa avrei fotografato? Cosa avrei aspettato con ansia, e bevuto ancora bollente? Cosa avrei offerto per dimostrare amore, cosa preso per ingannare il giorno?

Poi ringrazio che mi piaccia, ed impiego il tempo perso tirando un sospiro di sollievo.

Io, anche quando sono in vacanza, non sono mai in vacanza.
La mia mente va, e gira, ritorna e riparte, pensando sempre a ciò che sarà dopo. Così, se sono in spiaggia a prendere il sole, penso al libro che mi aspetta a casa, e se poco dopo sono a leggere penso a cosa dovrò fare a Settembre. La cosa bella è che poi a Settembre mi stupisco che l’estate sia già finita, e di quanto sia stata bella. Allora mi consolo e lascio la mia mente libera ancora un po’ di perdersi in sconclusionati e leggeri pensieri.

Mi rendo conto che giudico i libri dalla copertina.
Mi attraggono quelli molto colorati, con un bel titolo scritto con un font che mi piaccia: ne vedo uno, e so già se lo amerò ancor prima di sapere di cosa parli.
Allo stesso modo, quando rubo alla vita una foto, mi capita di pensare che potrebbe essere la copertina di un romanzo: ora una storia d’amore, ora il racconto di una passeggiata in giardino.
Ancora, un lungo monologo su una colazione, un piccolo dialogo su un dettaglio del tutto insignificante.
Ah, che bella cosa la fantasia.

C’è questa cosa così bella, in vacanza, che il tempo si dilata. Lo dico ogni anno, sembra che me ne stupisca, che sia una novità anziché un elemento inesorabile; forse, la sua bellezza è questa.
E così, l’attimo del prendere sotto casa bouganville  plumbago e begonia si spalanca: i colori, i profumi, le ombre contrastate si fanno sfacciati, si lanciano in ogni angolo, lo riempiono; ed un passo si fa baluardo di pomeriggi assolati in Luglio.

Mi immagino spesso di essere ad una finestra, ed assistere da spettatrice all’affaccendarsi della vita; ora una lucciola che di nuovo si palesa, ora un albero mosso dal vento che porterà la pioggia.
L’atmosfera ferma di un caldo pomeriggio d’estate, il lento calore del giorno che sfoca in tramonto.
Perdere ore a veder l’evolvere di un fiore, un filo d’erba perché no.
E chi siamo noi per non aprire le persiane, e prenderne parte?

Sono tornata a poter legare i capelli, che così riesco a pensare meglio.
Ho passeggiato tra i banchi dei contadini con i pantaloni di lino più larghi per trasformarli in rastrello; le rose di giardino, la lavanda, l’elicriso ne sono rimasti impigliati.
E sarei potuta tornare a casa ad occhi chiusi, tanto buono, e dolce, era il profumo di quella campestre scia cittadina.

Questa notte ho dormito con le finestre aperte.

Ho perso tempo a veder sul soffitto le ombre del fuori, i lenti movimenti di una foglia che sembrava addormentarsi prima di me.
Ho lasciato che gli occhi si chiudessero a tempo del grillar dei grilli, e che la pelle sperasse nell’arietta più fresca della notte.

Bentornata, estate

E se fosse che sia tutto nell’attimo in cui un attimo è finito, e quello dopo scalpita per arrivare?

Mi piacerebbe essere così brava a scrivere da poter dedicare una storia lunga il mondo alle peonie; vorrei avere tempo abbastanza per passare ogni minuto, ed ogni ora, a scovare nuovi aggettivi e parole desuete per descriverle.

Aggiungerei di continuo nuove sensazioni, ed emozioni, che si sa che a guardarle ne si prova di nuove ogni minuto; le osserverei, ed annuserei, per esser certa di non perderne un dettaglio. Scriverei, da mattina a sera, e leggerei loro quelle frasi per ché potessero sentirsi come come è la mia giornata quando le guardo: perfetta.

Ho trascorso anni interi in cui mi era insopportabile l’idea di rimanere in casa.
Odiavo avere del tempo morto, e riempivo ogni attimo all’inverosimile per esser certa di non provare noia.
In questi ultimi mesi, in cui la situazione si è ribaltata, ho imparato a dar valore alle sospensioni, ad inventar vita con cui riempirle, a proseguire minuti per capir di cosa siano composte le ore.
Così, in questo attento inizio di ritorno alla normalità, mi sono stupita di come il mio essere si sia abituato all’allenamento, imparando a rallentare anche in ciò in cui prima ero campionessa di velocità.
E mi sono ritrovata a camminare più piano, con un passo a ciò che era, ed uno a quel che sarà.

Ho questa passione per tutto ciò che non è nuovo; per tutto ciò che è in qualche modo rotto, portatore di storie nelle sue fessure, di sentimenti a bordo sbeccatura.
Amo ciò a cui il tempo ha concesso più vite, ché una non era abbastanza, che negli anni è riuscito a reinventarsi, scalfire senza distruggersi, apparire senza ostentare. Tutto ciò che non si è ancora stancato di parlare e sorridere a chi ha gli occhi per vederlo, lo spirito per goderne, come una poesia tra pertugi di piastrelle.

Sono anni che condividiamo una casa, i pensieri, le stanchezze, la vita,  la colazione; non ci siamo stancati di prendere il caffè uno davanti all’altra tutte le mattine, tu di uscire presto per comprare le brioches, io di mettere i fiori freschi tra noi; stupirsi perché ultimamente sei più bravo di me in questo.
E non è questo amore?

Stanno capitando queste mattine in cui amo perdermi; mi siedo fuori, accompagnata oggi dal freddino, oggi dai primi raggi di sole, in ascolto di quel che l’uno o l’altro abbiano da dirmi.

Abbiamo parlato sulla bellezza dei fiori di stagione, su quanto ogni giorno la brioche paia essere più buona; su quanto sia salvifica, quando gli occhi sono stanchi, una tazzina di caffè.

Ho visto la mente andar via, far piccoli voletti in grandi distanze; tornare rinnovata.
E non è forse questo a cui serve la Primavera?

Ieri ho guardato il cielo alle otto di sera, sorprendendomi ancora di come le giornate siano così sfacciate nel loro allungarsi; ho visto una nuvola molto lunga, e netta, ed altre subito sopra più paffute.
Mi è sembrato di vederci il mare, il suo orizzonte.

Così mi sono divertita a pensare a quante cose sarebbero ancora più belle se eliminassimo il concetto di confine così come lo conosciamo, e lo reinventassimo come linea di creazione per ciò che vorremmo.

In effetti il pensiero è contorto, ma così, davanti al mare che era cielo e al cielo che era mare sembrava l’essenziale.

Sono talmente agitata in questo periodo, che mi rendo conto che le frasi mi escono sconclusionate, ma non mi va di riordinarle nel rigore logico  di un ordine imposto.

Sono circondata da così tanta bellezza, che non so più chi ringraziare: non so se farlo sottovoce o urlare a gran voce, se mantenere un profilo basso davanti alla felicità, o prenderla sottobraccio e farci un balletto.

Quest’anno ho assistito ad un vero e proprio risveglio della natura, cosa che mi ha occupato gran parte delle mattinate; parlavo col rosmarino, salutavo le api, e passavo dalla rosa per un cenno d’intesa.
Son fioriti i lillà.
In cambio, loro sembravano raddoppiare di giorno in giorno le loro dimensioni.
Non so se sia merito del sole, o del mio feroce chiacchiericcio, ma nel dubbio non ho ancora smesso.

Provo sempre un brivido di emozione a tutte le prime volte di una stagione, senza curarmi del pensiero che ogni volta è già stata la prima per una lunga serie di anni che sono stati, e che saranno.
Per esempio le gemme, il profumo che cambia, quei cibi che si aspettavano e che sono tornati.
La ciclicità consolatoria di ciò che accade sempre uguale.
E non è meraviglia trovare stupore in ciò che nasce per nutrire cuori abitudinari?

Per un attimo ho perso le parole.
Non mi sono affrettata a ritrovarle. In quel silenzio improvvisato ho legato un nastro ai miei capelli corti per lasciarli parlare col vento, piccoli annunci di primavera.

Mi sono concessa un istante per pensare a quanto mi piacciano gli avverbi che finiscono in –mente-: allungano le frasi e danno, a chi le legge, il senso di avere a colloquio una persona di molte parole, senza paura di sprecarne: brutalmente, volutamente, assolutamente.

Così, per non arrivare impreparata, mi sono scelta un orario, le sei, in cui controllare, ogni pomeriggio, il cielo.
E capire, in questo modo, se le giornate si stanno allungando, ed evitare di voltarmi, una sera, e capire che l’inverno è un ricordo e nulla più.

A me San Valentino piace.
Piace perché è vero che l’amore va celebrato tutti i giorni, in ogni sua forma, ma lo è anche che avere un giorno dedicato all’innamoramento nel suo senso più ampio, male non fa.
Piace perché spinge gli animi romantici a dare il meglio di sé; altrettanto fa scoprire a chi non lo è nuove inclinazioni di attenzioni. Piace perché in fondo piace anche a chi dice non mi piace, ché a ben cercarlo un motivo per amare l’amore lo si trova: ripescando dalla memoria versi di una canzone che anni fa si sapeva a menadito, leccando il cucchiaino ancora pieno di Nutella, seguendo un dolce far niente.
Annusando lenzuola appena lavate.
San Valentino mi piace perché permette di usare le parole piacere, e amore, senza la futile preoccupazione delle ripetizioni.
Si sa d’altronde che a San Valentino di piacere e amore non se ne ha mai abbastanza.

Ricordo quando al Liceo la mia Professoressa di Italiano, il motivo per cui poi mi sono iscritta a Lettere all’Università, ci disse con naturalezza, come nell’inciso di una mezza frase buttata lì, una verità mascherata da ovvietà: nella vita nessuno inventa nulla.

Diceva che viviamo in una continua ispirazione, e che l’arte appunto, quella vera, emerge da ciò ognuno di noi può aggiungere, in ogni campo.
Nella reinterpretazione del bello, del poetico, del reale: nel complemento di ciò che siamo.
Da allora i miei occhi sono cambiati, ricercando in ogni dettaglio un frammento da poter rigettare dopo essere passato attraverso la mia essenza, creandomi ogni giorno la mia propria poesia.

E cosa c’è di più bello al mondo?

E così, in un momento di abbandono, la mia mente ha iniziato a pensare alle mie mani; ai loro movimenti, alla loro danza instancabile, all’estenuante fatica per stare al passo della testa, che le comanda, le guida, che su di loro fa affidamento.
Ho pensato alla fatica che dovremmo impiegare, allo sforzo incredibile, se ci imponessimo di lasciarle libere per davvero.
A quali giochi farebbero vibrandosi in aria.
Eppure, quegli spasmi dell’anima che si diffondono attraverso le dita, non sono vera vita?

Ho una certa difficoltà nel rimanere con i piedi per terra.

Nel guardare le cose come stanno, nel limitarmi alla realtà dei fatti senza aggiungere qualche intrinseco e nascosto significato, nel pensare che un raggio di sole sia tale, senza affidargli un altro valore.

Nel fermare una costante ricerca di scosse per il cuore.

E non vorrei mai che la concretezza di un istante potesse eludere un remoto piacere.

Tante volte ho sperato di trovare un salvagente: quando mi ritrovavo il giorno prima di un esame con ancora un libro intero da studiare, quando in un amore non mi sembrava più di avere davanti agli occhi uno strato di lucciole che mi facesse vedere tutto meraviglioso, quando il caldo non mi faceva respirare e aspettavo solo l’autunno; quando un’amicizia mi stava stretta, quando le giornate mi parevano talmente lunghe da non poterci sopravvivere, quando ero così insoddisfatta che avrei cambiato ogni dettaglio intorno a me.
Ma la cosa più bella è che io un salvagente l’ho sempre trovato: l’ho trovato in un fiore, in una pioggia improvvisa, nelle parole di un poeta, nella fetta di un dolce; in una colazione all’aria aperta, in un banco di contadini, nei rituali dell’inverno che fanno sentire protetti.
Dentro di me.
E in un filo di lucine immaginario a circondare ogni momento felice .

Mi capita, spesso, che io stia minuti interminabili, che poi dilatandosi, mi paiono infiniti davvero, a pensare a cosa vorrei fare per cancellare un blocco.
Questo blocco, che ogni tanto mi capita, è come un sassolino, non pesante, non troppo invadente, ma presente e persistente; si palesa in diversi momenti, nei più vari e mai nei più ovvi, che quando provo ad affrontarlo, occhi negli occhi, lui finge di non esserci più, mascherandosi, coprendosi.
E allora, in questi casi, inizio a scrivere, cosa non importa, che l’importante è poi che, alla fine, il sassolino l’ho spostato, ed il peso è un po’ più lieve.

Quando sono felice, di una felicità appena accennata, per un istante casuale o un avvenimento non pensato, sento come un bruciorino tra il cuore e lo stomaco; mi capita da sempre, fin da bambina, come se la mia testa mandasse una scossetta per esser sicura io mi accorga della sensazione imminente.
Forse ha paura che io possa non farci caso.
Fatto sta, che sento questo bruciorino, che è bello, bellissimo, così inatteso, non programmabile, del tutto imprevedibile, e quando la sera mi siedo al bordo del letto, un attimo prima di sdraiarmi, mi chiedo: cosa ti ha dato il bruciorino, oggi?
Mentre la mente vaga, tra le cento scintille accidentali.

Sono una fan sfegatata del dettaglio.
Dell’angolo quando potrei avere l’intero, di un rametto di pino caduto quando solo voltandomi ne avrei uno ben più alto.
Del caffè che resta sul fondo della tazzina più che di quello fumante appena versato, della singola frase anziché del libro tutto.
Dell’essenziale anziché del superfluo, del luminoso anziché del ridondante.

Ho cambiato occhiali da vista, e come li ho avuti in mano li ho inforcati con l’avidità di chi arraffa novità dimenticando, per un lasso di tempo più o meno breve, ciò che prima era esistito mostrandosi utile e spesso fondamentale.
Poco dopo, le stesse dita che erano state decise hanno ripreso la vecchia montatura, per ritrovare, nel lento gesto di appoggiarli al naso, una vecchia comodità.
Allora mi sono chiesta quanto abbiamo realmente bisogno di costanti novità, e quanto invece dovremmo allontanarci per un momento dal consueto per tornarci ed apprezzarne l’essere vecchio, storto, un po’ appannato.
E chissà se lo stesso vale per passati amori, antichi affetti, vetusti sussulti del cuore; la risposta per gli occhiali è stata facile da trovare: per il resto mi prenderò del tempo.

Si tratta di una scelta: anni fa, ho deciso con quale sapore iniziare le mie mattine, nel vasto campo di scelte indefinite, non pilotate, obbligate, o suggerite.
Ho preso una brioche e ne ho fatto simbolo di felicità, baluardo di nuove albe, portatrice sana di sorrisi tra probabili raggi di sole e possibili nuvole; ho preso un istante sporadico trasformandolo in promessa di stupore, nell’abitudine di non abituarsi mai.
E non è forse questo un primordio di perfezione?

Adele Chiabodo