LA VITA SEGRETA DELLE TAZZINE ovvero: cosa si dicono gli oggetti quando non li guardiamo
Non è vero che gli oggetti stanno zitti, semplicemente aspettano che usciamo dalla stanza. È un segreto che conoscono tutti i cucchiaini tutte le tazzine tutti i centrini che hanno passato abbastanza tempo su una credenza. Non c’è giorno in cui non si dicano qualcosa alcuni parlano a bassa voce altri borbottano certi sbuffano appena. Ma parlano, sempre.
Nel mio soggiorno ad esempio le tazzine hanno un bel caratterino. Sono sei tre con i fiori blu due un po’ scheggiate ed una con l’oro sul bordo molto piena di sé. Vivono nella credenza secondo piano dietro una porta in vetro con una serratura finta ed ogni mattina appena chiudo la porta di casa cominciano a parlare.
«Ah! Finalmente silenzio. Quel cucchiaino continuava a sbattere contro i bordi. Maleducato», dice quella con l’oro.
«Io mi sento trascurata. Una volta servivamo il caffè agli ospiti, ora solo latte d’avena tiepido», sospira una delle scheggiate.
La loro leader, la tazzina con il fiore blu centrale, tiene le fila delle conversazioni. Le piace dire cose come: «Non siamo solo stoviglie siamo memorie in porcellana.»
La zuccheriera è molto più pigra e parla solo se interrogata ha un coperchio leggermente storto e crede che questo la renda affascinante.
«Io, comunque, ho visto tutto», dice ogni tanto alludendo a segreti mai spiegati.
Il vassoio di metallo quello delle grandi occasioni si sente ormai in pensione. Passa le giornate lamentandosi dei nuovi vassoi in bambù. «Non hanno spessore non tengono il suono delle tazzine. E poi… quel look zen? Pura presunzione.»
I piattini invece fanno gruppo a parte. Sono più giovani più frivoli ridono delle stesse cose da anni un cucchiaino che ha perso la lucidatura una macchia di tè mai venuta via e la teiera non li sopporta li chiama “i sottobicchieri evoluti”.
È un piccolo mondo insomma un microcosmo di ceramiche e opinioni. Ma non è solo una questione di parole gli oggetti hanno anche dei gesti. Cambiano posizione impercettibilmente si inclinano di qualche grado si stringono tra loro o si allontanano. Un giorno ho trovato la tazzina con l’oro tutta sola voltata verso il retro del mobile. Una punizione? Un litigio? Chissà.
Ci sono gerarchie vecchi rancori nuove alleanze. Quando ho provato a spostare la tazzina scheggiata più in vista l’aria nella credenza è cambiata sottile come un battito ma netta come a dire: “Tu non sai chi siamo ma noi sappiamo tutto di te.”
Una volta ho dimenticato la porta aperta. Sono rientrata in casa piano e mi è sembrato di sentire un tintinnio una risatina forse erano solo le finestre aperte il vento. O forse no. Perché in fondo chi può dire cosa accade quando gli oggetti restano soli?
C’è una saggezza nei vecchi cucchiai una malinconia nei bicchieri scompagnati un certo snobismo nelle posate d’argento. Ma le tazzine le tazzine sono le più vive forse perché portano con sé tutte le nostre pause tutte le conversazioni a metà tutte le mani che le hanno strette. Non servono solo il caffè ascoltano ricordano si raccontano storie e quando non le guardiamo ne inventano di nuove.
IL CONSIGLIO DEI FIORI
Il prato non aveva pretese non era uno di quei luoghi pettinati per la copertina di un libro illustrato né sfoggiava l’ordine botanico di certi giardini comunali. Era un pezzo di terra qualunque ai margini di un sentiero poco battuto dove l’erba cresceva libera i fiori sbucavano quando volevano ed il vento si prendeva certe libertà.
Quel giorno, però, succedeva qualcosa una di quelle cose che non si vedono ma si sentono e cioè: tutti i fiori del prato avevano deciso di parlare.
“Secondo me quest’estate è strana,” aveva esordito il tarassaco che aveva sempre qualcosa da dire e mai niente da nascondere. Le sue spore tremavano anche senza vento. “Arriva, poi sparisce, poi torna più sudata di prima. Una stagione incerta, come le persone incapaci di decidersi.”
“Oppure siamo noi ad essere impazienti,” rispose la lavanda, che non parlava spesso ma quando lo faceva era difficile dimenticarla. Profumava di certe cose perdute le lettere chiuse male le lenzuola di una nonna le estati che non si sono capite fino in fondo.
“L’estate ha i suoi tempi. Entra quando vuole, si siede dove vuole. E non chiede scusa.” La margherita che quel mattino si era svegliata con tutti i petali in ordine cercava di tenere alto l’umore. “Ma guardate che giornata!” esclamava, tutta protesa verso il cielo. “C’è luce, c’è silenzio. Forse dovremmo smettere di cercare e cominciare a sentire.”
Il girasole — che si era già girato tre volte nel giro di mezz’ora — sbuffava.
“Sentire cosa? Io voglio il sole. Quello vero forte totale non queste mezze luci questi raggi tiepidi che si fingono estivi. L’estate è certezza ed io oggi non la vedo.”
Un fruscio tra l’erba li fece voltare tutti dal basso e con una discrezione quasi timida si fece avanti un fiore di carota dall’aria selvatica. Stava lì da giorni forse settimane ma nessuno ci aveva mai fatto troppo caso. Un ombrello bianco e minuto con un minuscolo puntino scuro al centro un dettaglio — direbbero certi — una presenza laterale.
“Vi ascolto da un po’,” disse con voce calma. “E sapete che c’è? Forse non serve discutere se l’estate è arrivata o meno forse serve solo restare respirare questo preciso momento. Anche se non è perfetto ed anzi proprio perché non lo è.”
I fiori tutti rimasero zitti di un silenzio bello non quello imbarazzato delle discussioni non risolte ma quello delle intuizioni condivise. La lavanda annuiva il tarassaco lasciava andare una spora il girasole per una volta non si voltò. E la margherita disse solo: “Allora restiamo”.
E così fecero per ore senza dover essere altro senza rincorrere spiegazioni. Ogni tanto il vento si infilava tra i petali come una carezza mentre un’ape passava in visita posandosi brevemente senza disturbare. Ed il sole come fanno gli amici veri restava anche se non lo vedevi tutto.
SE UN TRULLO
Questa newsletter è un racconto un po’ strano un po’ fresco un po’ di pietra e un po’ di vento di Puglia. Perché questa volta a parlare è una casa — di calce di ombra fresca: un trullo. Che sta fermo, ma ascolta tutto, custodisce pezzi di chi passa e poi riparte ed ogni tanto, se lo lasci fare, racconta. Perché anche le case — se potessero — racconterebbero di noi, di chi arriva e di chi parte.
Mi chiamo Trullo ed un nome vero non ce l’ho perché da queste parti non serve, chi sta fermo non ha bisogno di essere chiamato. Io sto fermo da molto tempo, più tempo di quanto chiunque ricordi; ho muri spessi che tengono fuori il caldo, dentro il fresco e custodiscono voci che non si vogliono disperdere. Non saprei dire quanti anni ho. Ho visto i fichi crescere storti, la polvere coprire i muretti, la pioggia scavare fessure nella pietra viva. Ho visto famiglie intere sedersi fuori a sera, con le sedie in ferro battuto e le cicale a cantare senza stancarsi mai.
Dentro di me passa chiunque abbia bisogno di fermarsi, coppie che ridono piano per non svegliare i vicini, bambini che spariscono tra gli ulivi lasciando dietro di sé tracce di fango e briciole di pane; signore in vestaglie leggere che la sera spengono la luce tardissimo e viaggiatori con valigie piccole e quaderni troppo pieni. Li accolgo tutti non scelgo non giudico non mi muovo ma ascolto. Ho un punto vicino all’ingresso dove la calce si è crepata: lì si appoggiano sempre le mani come a chiedere permesso; c’è un chiodo arrugginito che tiene un cappello di paglia da due estati ed una finestra tonda, minuscola, che di notte lascia entrare un filo di vento con dentro profumo di basilico. Qualcuno mi fotografa qualcuno si siede all’ombra, schiena contro muro, gambe distese, qualcuno parla al telefono a voce bassissima come se temesse che potessi origliare troppo. Ma io origlio lo stesso e non è cattiveria: è che non ho altro da fare.
Qualche giorno fa è arrivata una ragazza portava una valigia blu troppo piccola per starci dentro un’estate. Aveva capelli annodati di fretta ed un quaderno di carta ruvida di quelli che fanno rumore quando giri pagina piano. Ha girato intorno a me tre volte forse per studiarmi forse per chiedermi il permesso. Poi si è seduta sul gradino e scarpe accanto, ginocchia piegate, ha aperto il quaderno e ha cominciato a scrivere; scriveva in silenzio ma a me arrivavano tutte le parole ed ogni tanto alzava lo sguardo verso i tralci di vite sopra la porta, come se lì trovasse i pezzi di frase che le mancavano. Quando se n’è andata ha lasciato dietro di sé un braccialetto di stoffa infilato su un ramo di fico ed io lo so che tornerà perché chi lascia qualcosa torna sempre.
Io non dormo mai e quando dentro tutto tace quando le luci si spengono quando i piatti restano nel lavello a farsi compagnia — io resto sveglio. Ascolto le rondini guardo le crepe crescere lente imparo le voci a memoria. E se solo potessi parlare forte direi a chi passa di non avere fretta che qui le ore non si contano come altrove che qui le storie non chiedono permesso: si siedono restano lasciano tracce di polvere bianca sui vestiti.
Io sono un trullo. Fermo, sì, ma pieno di cose in movimento. E se capiti da queste parti fermati appoggia la schiena al muro, chiudi gli occhi e forse sentirai le risate di chi è venuto prima di te e forse ti accorgerai che stai lasciando qualcosa anche tu. Perché non serve molto basta una parola un pensiero veloce un respiro più profondo del solito. Io tengo tutto e quando te ne andrai mai niente si perderà davvero.
ESTATE
Non l’avevo invitata ed ora vive con me — è arrivata l’Estate.
Questa è una storia vera e piena di dettagli: la protagonista vive da sola poi arriva l’Estate — una donna viva, sfacciata, poetica e un po’ invadente. Resta con lei si insinua nel quotidiano e lo trasforma. È ironica e tenera silenziosa e fisica e come tutte le cose belle non dice mai quando se ne andrà.
Prenditi tempo per leggerlo*, come una cosa piccola ma piena.
*colonna sonora consigliata: Estate, Bruno Martino
Estate quest’anno è arrivata a piedi senza fare rumore scegliendo i margini di una sera in cui si può finalmente cenare fuori, del primo giorno senza calze, della notte in cui dormi con tutto aperto e ti svegli senza freddo. Non è puntuale, Estate, si fa aspettare si lascia nominare e soprattutto non si scusa per il caldo il sudore le finestre spalancate che fanno entrare polvere e cicale. Ma poi — come certe donne sicure di sé — entra nella stanza senza chiedere permesso. Appoggia la sua borsa vicino alla porta, si sfila i sandali, si siede sul pavimento fresco. Guarda intorno come per dire: bene, adesso sono qui.
Estate non si scusa mai del suo arrivo e porta con sé tutto quello che ha anche il disordine; non è elegante è viva e sa di frutta troppo matura, di crema solare spalmata in fretta di panni stesi tra una telefonata e l’altra. Estate non arriva mai per caso ci pensa da settimane si prepara a lungo con calma teatrale come fanno le ospiti importanti. Fa liste su liste — di cosa portare cosa lasciare cosa dimenticare apposta e poi, quando tutto è pronto, parte e parte all’alba con un modo tutto suo di arrivare senza prendere treni senza prendere taxi.
Viaggia leggera ma piena come chi ha imparato l’arte dell’essenziale. Indossa un vestito di lino morbido bianco con una macchia di ciliegia; ai piedi ha sandali consumati sulle spalle uno zaino di tela dove tiene poche cose, un paio di occhiali da sole rigati di sale un libro con le pagine un po’ gonfie una bottiglia d’acqua mezza calda un piccolo sacchetto di albicocche.
Estate è una donna vera con l’età indefinibile di chi esiste da sempre, una bellezza non canonica che non ti abbaglia ma ti resta. È spettinata in modo coerente, le guance sempre un po’ rosse, i polpacci segnati da graffi di rovi o morsi di zanzare. Ha un odore di pelle salata, panni lasciati asciugare al vento e qualcosa di dolce tipo la polpa della frutta che si rovina presto. Cammina scalza sempre anche in terrazzo anche nel cortile: ha piedi vissuti duri e forti che trascina appena senza fare rumore.
Me la sono trovata in cucina una mattina di inizio giugno mentre stavo mettendo su il caffè, ancora assonnata e quando mi sono voltata era seduta lì a gambe nude, incrociate sulla sedia. Lei è entrata e ha aperto il frigo ha spostato il burro per far spazio a una ciotola di ciliegie, ha preso due bicchieri e li ha lasciati sul tavolo. Perché lei fa così, fa spazio anche quando non serve. Non è perfetta ma è piena non è eterna ma quando c’è, è tutta e se le fai spazio — davvero — lei resta un po’, nelle mani che sanno già cosa fare nei ritmi più lenti nei respiri profondi.
“Scusa,” mi ha detto. “Ma fuori era già troppo caldo.”
E da quel momento ha cominciato a vivere con me.
Le sue cose sono poche ha una borsa enorme di tela sdrucita da cui ogni giorno tira fuori qualcosa di nuovo: una tazza sbeccata un pareo a fiori una matita consumata fino all’osso. Una volta ho trovato nella tasca un mazzetto di rosmarino due mollette spaiate ed una cartolina scritta a metà. Il destinatario non c’era, solo una frase Oggi ho camminato molto. Tu? Porta in casa oggetti che sembrano usciti da una valigia di un’altra epoca. Ogni cosa ha un suo rumore un suo odore una sua temperatura. Un giorno ho trovato una ciotola piena di fichi troppo maturi l’indomani un centrino ricamato con una macchia di caffè.
Ha portato con sé anche delle abitudini ad esempio si lava i denti solo dopo aver bevuto il primo bicchiere d’acqua, quando stende i panni li divide per colore, quando legge sottolinea solo i verbi. E non sopporta i rumori elettronici, spegne il frigorifero ogni notte e lo riaccende al mattino. Lascia le scarpe ovunque, parla al basilico, scrive liste che non segue mai, appunta pensieri su foglietti volanti, poi li dimentica in tasca. Quando cucina improvvisa ed usa quello che trova come se ogni ingrediente sapesse di poter diventare qualcosa di buono. Le sue insalate sono strane a volte azzardate ma sempre piene di colore e quando taglia il pane lo fa lentamente con un rispetto antico per le cose semplici — dice che i coltelli devono essere affilati ma non arrabbiati. Una volta ha fatto bollire la pasta e ci ha messo dentro solo scorza di limone erbe ed olio: era buonissima.
Si muove per casa come se fosse sua, entra nelle stanze come se le conoscesse da sempre, si siede dove vuole e mette i piedi nudi sul tavolo. Non chiede permesso. Estate è una che non porta mai il pigiama, si addormenta tardi coi capelli umidi e si sveglia con le mani appiccicose di albicocche. Parla ad alta voce anche quando sussurra, profuma di benzina basilico e lenzuola stese al sole. Quando arriva ti disorienta un po’ ma poi capisci che è da lei che volevi farti scombinare. Ruba le coperte dal letto e le sostituisce con lenzuola di cotone leggero, aggiunge un vassoio sul balcone ed impone pause dopo pranzo insinuando pomeriggi lenti pieni di niente. Non ha un profumo definito, dipende da dove arriva: a volte sa di rosmarino a volte di benzina calda a volte di pelle salata ma quando entra la riconosci. Ti entra nelle braccia nelle caviglie nella schiena ti si incolla addosso ma senza pesare, tiene i capelli legati male come se avesse fatto altro fino a un attimo prima. Quando legge si accovaccia quando pensa si dondola quando si annoia accarezza le piante. Parla con voce bassa un po’ roca dice poi vediamo come risposta a tutto. Non promette non conferma, sospende. Legge di tutto ma solo a metà, dice che non serve sapere come va a finire. Pesca con le mani le olive dal fondo del barattolo — dice che il cucchiaio è una convenzione.
La prima settimana ha dormito sul divano in soggiorno poi ha spostato le coperte nella stanza degli ospiti anche se non le ho mai detto fosse libera. Ci ha messo la sua borsa ha sistemato i sandali sotto il letto ha appeso la camicia alla maniglia dell’armadio. Ogni mattina apre le finestre, annaffia le piante, cucina qualcosa di fresco e mi lascia in tavola un biglietto con appunti del giorno come Ricordati di togliere le lenzuola prima che il sole sia troppo alto o Le pesche non sono ancora pronte, ma stanno pensando di diventarlo. Parla pochissimo ma quando lo fa pesa ogni parola come se fosse un gesto, le sue frasi sono brevi ma ti restano addosso come certe scottature. Non ha orari a volte pranza alle quattro altre si addormenta in terrazza prima del tramonto, beve il tè freddo solo se dimenticato in frigo da almeno due giorni. Non sopporta le tovaglie troppo stirate e dice che le cose perfette fanno sudare. Non si arrabbia mai ma borbotta e lo fa con una tenerezza che ti spiazza. Se la cerchi spesso non la trovi ma basta lasciare una sedia libera o mettere su il caffè e riappare. Ama il bucato lo lava a mano lo stende piano lo annusa prima di piegarlo. Una volta l’ho trovata con la faccia affondata in una maglietta, ha detto Profuma di vita. Ha il culto delle lenzuola leggere delle camicie di lino degli asciugamani stesi fuori anche quando piove, una sera ha rammendato un calzino con un filo rosso. È generosa e caotica intensa e silenziosa. Non ti dà spiegazioni ma ti cambia le giornate e da quando è arrivata il tempo si è dilatato. Faccio meno cose ma con più presenza metto a mollo i fagiolini e poi li dimentico mi siedo per terra più spesso e lascio i piatti sporchi senza senso di colpa; lei non giudica. Se leggi sul pavimento lo fa accanto a te. Se cucini ti guarda e se non fai niente ti offre un bicchiere d’acqua con una fetta di lime ed un rametto di menta. Dice che la bellezza quella vera ha bisogno di pause e che anche le pause hanno un loro ritmo. Dice che per vivere bene bisogna ogni tanto perdersi in qualcosa che non serve e che l’ozio, se fatto bene, è un talento che non tutti lo possiedono.
Una sera mentre guardavamo il cielo cambiare colore senza dire nulla mi ha chiesto se avevo una stanza in più.
“Intendi una vera stanza?”
“No, una metaforica, un angolo che non sai bene come usare e che lasci sempre lì, sospeso.”
“L’ingresso, forse.”
“Perfetto, è mio.”
E da allora l’ingresso è diventato il suo posto ci ha messo il suo foulard, una ciotola di conchiglie, un libro lasciato aperto su una pagina senza titolo. A volte cambia tutto altre lascia che si copra di polvere. È un piccolo altare alle sue giornate, mutevole come lei, microcosmo che trasforma ogni soglia in attesa. Non so quando se ne andrà ma ogni giorno resta un po’ di più. Quando esco la lascio seduta sul terrazzo con le gambe penzoloni e quando torno ha già preparato qualcosa, un piatto di pasta fredda, un messaggio scritto col dito sul vetro appannato, un mazzo di fiori raccolti per strada.
Non dice addio non fa programmi ma se ti distrai un attimo è lì con gli occhi chiusi i capelli spettinati ed il mondo che sembra — per un istante — perfettamente allineato. Sta in equilibrio come una poesia che non finisce con il punto. Ed io ogni volta che la guardo, penso: forse questa volta resta davvero. E se anche non restasse se domani facesse le valigie e sparisse senza rumore so che qualcosa di lei resterebbe comunque, un gesto un ritmo una voglia sottile di luce. E la sensazione precisa che per un po’ siamo state bene così. E allora resto anch’io nella casa che ha imparato ad abitare con me, nelle giornate che hanno imparato a dilatarsi, nei gesti piccoli che all’improvviso sembrano bastare. Resto in silenzio con le finestre aperte e le mani bagnate, mentre lei si siede e mi guarda come se sapesse che non servono parole.
Solo una domanda alla fine “Ti dispiace se resto ancora un po’?”
TRE PEONIE, UNA ROSA ED UN INIZIO
Stamattina ho raccolto le tre peonie dal terrazzo. Una è ancora un bocciolo: tiene tutto stretto dentro. Le altre due invece si sono aperte all’improvviso, come se stanotte avessero deciso di fidarsi. Accanto, la prima rosa inglese. L’aspettavo da giorni, e stamattina, senza preavviso, c’era.
Li ho messi in un vaso, sul tavolino in terrazza che ho adibito ad angolo delle colazioni, poi mi sono seduta.
Il cappuccino era tiepido al punto giusto, le finestre erano ancora appannate e per un attimo — un attimo solo — ho avuto la sensazione che tutto fosse in equilibrio: i fiori sul tavolo, la tazza tra le mani, il tempo che non chiedeva niente. Solo questo, e già bastava.
Ed è da qui che voglio iniziare.
Da questi piccoli istanti imperfetti e preziosi, dove succede qualcosa che non sappiamo definire — ma che somiglia alla felicità.
Questa newsletter si chiama Una cosa piccola proprio per questo: per raccogliere momenti che spesso passano inosservati, ma che dentro di sé portano bellezza, stupore, quiete. Ogni tanto ti scriverò per raccontarti qualcosa: un pensiero, una scena quotidiana, un ricordo, una riflessione. E poi ti lascerò qualcosa da portare con te, come una piccola lista da tenere nel taschino.